IDENTITA'/MUTAMENTO attivismo globale testimonianza radici

Dan Halter "An Outpost of Progress" (Colonial Africa), 2024

Vi sono diverse vie per avvicinare l’arte africana contemporanea, comprendendola con uno sguardo, cogliendone il contatto vitale con la realtà, affiancandola, per la sua concretezza, nell’immedesimazione e nella empatia con la totalità. Sino all’in-contro percettivo con le espressioni simboliche che si traducono nella sostanza viva, animata, mai limitata o inconsapevole di cui si compongono le opere.
Immagini e soluzioni formali riferite ad una filosofia e ad una religione della materia, per dirla alla stregua di Dominique Zahan, espressione autentica di una vera e propria alchimia del concreto, nell’idea quindi, di un concreto plasmabile. Nell’evidenza invariabile - tanto nelle produzioni presenti quanto in quelle del passato - che l’autore africano, per esprimere le proprie concezioni, possa trarre l’opera nell’utilizzo di qualsiasi ma-teriale offra l’ambiente circostante. Di questo dicono, inoltre, codici espressivi segno di una spiritualità e di un’etica individuale e sociale per cui l’artista, nella sua acuta umanità, non può che percepirsi immagine, modello e parte costitutiva di un mon-do in cui è inevitabilmente inserito.
L’opera, in definitiva, oltre che impegno materiale e forma immateriale di attivismo, altro non è - nelle più persuasive proposte di arte africana contemporanee - che passaggio alla conoscenza e, nel processo di identificazione tra l’artista e il mondo di appartenenza, gioco di specchi utile a rinviare incessantemente le rispettive immagini.
Giovanni Nicolini/Flag No Flags Contemporary Art


courtesy of Osart Gallery, Milano

DAN HALTER
L’opera di Dan Halter (Zimbabwe, 1977), qui esposta, raccoglie un nuovo corpus di lavori che esplorano i temi della proprietà terriera, in particolare la questione della ricchezza e della distribuzione della terra nell’Africa post-coloniale e nel capitalismo globale in generale, oltre alla crisi climatica che affligge il nostro pianeta.
Singolare figura nel panorama dell’arte contemporanea, Halter ha messo punto una tecnica esclusiva che muove dall’antica arte della tessitura africana e la trasla in chiave artistica, con esiti di grande techné. L’artista sostituisce infatti il tradizionale intreccio di fili con l’intreccio di testi, pagine e pagine tratte dai classici, quali il Contratto Sociale di Rousseau o Il Principe di Machiavelli, che diventano quasi dei messaggi cifrati pretestuosi a indagare l’ingerenza dei poteri stranieri nelle politiche statali e le conseguenti profonde fratture che caratterizzano la nostra contemporaneità.
Storia, letteratura, scoperte di carattere scientifico, abilità manuale e ricercatezza estetica si mescolano nelle opere creando un percorso espositivo ricco di stimoli concettuali e visivi. Spicca per dimensioni l’iconica Mappa del mondo (2019), elemento ricorrente e distintivo della produzione di Halter (per la quale ha dichiarato più volte di essersi ispirato ad Alighieri Boetti), realizzata con brandelli di borse di plastica dall’inconfondibile texture tartan, cuciti insieme a formare un planisfero in cui le aree interessate dall’emigrazione sono consunte, mentre quelle caratterizzate dall’immigrazione sono praticamente nuove.
Riflettendo sul tema del colonialismo, l’artista espone in questa occasione anche una mappa dell’Africa, che fa riferimento alla divisione geopolitica del continente durante l’epoca coloniale.
Collegata al potere, meglio dire alla sua cattiva gestione, l’emergenza ambientale che Halter esplora con degli unicum nella sua produzione. The Pale Blu Dot (2023) raffigura la Terra come un minuscolo puntino blu, che quasi scompare nella galassia di parole minuziosamente riportate dall’artista. Sono quelle dell’omonimo libro di Carl Sagan ispirato da un’immagine scattata, su suo suggerimento, dalla Voyager 1 il 14 febbraio 1990 quando la navicella spaziale si trovava a 6,4 miliardi di chilometri di distanza dal nostro pianeta. Cristallizzata al centro dei raggi di luce diffusi (risultato di aver scattato la foto così vicino al Sole), la Terra appare come un minuscolo punto di luce, una mezzaluna di soli 0,12 pixel di dimensione.

FRANKLYN DZINGAI
Franklyn Dzingai (Kwekwe, Zimbabwe, 1988) presenta a Reggio Emilia lavori recenti incentrati sul tema della vita in città. Harare, la capitale dello Zimbabwe nella quale vive e lavora, diventa il palcoscenico esistenziale su cui germinano le narrazioni dell’autore. La recita del quotidiano si svolge nelle complesse condizioni socioeconomiche del Paese, afflitto da un’inflazione incontrollata, dalla disoccupazione dilagante e dalla scarsità di servizi. Eppure, vitalità, speranze e sogni di riscatto emergono dal fondo delle opere e assurgono a soggetti di un’indagine artistica che rivela virtuose improvvisazioni, sia sul fronte delle pratiche esecutive che dei materiali utilizzati.
Dzingai è uno dei pochi artisti in Zimbabwe specializzato in tecniche di stampa su tela, in particolare nell’uso di matrici di cartone nel processo di stampa. Il suo lavoro si articola intorno allo smontaggio e rimontaggio del proprio ambiente di provenienza. Dopo aver ricavato le immagini da libri, riviste, quotidiani e fotografie di famiglia, le assembla insieme realizzando dei collage, andando così a rinegoziare presenza e identità delle figure che compongono le sue opere.
La decostruzione diventa allora un esercizio meta-cognitivo, per una rilettura del proprio contesto sociale, che ne rende possibile il gioco interpretativo. Manipolati, rimaneggiati, assemblati in forme varie, lacerti cittadini, scampoli di tessuti o frammenti delle borse di plastica (Chinese bags) dentro le quali i migranti traslocano le loro vite precarie, insieme a uomini, donne, auto e scorci domestici, diventano affreschi contemporanei della caotica vita urbana.
Lo Zimbabwe si conferma uno degli ecosistemi artistici più prolifici dell’area dell’Africa meridionale e i suoi rappresentanti interpreti capaci di elaborare nuovi linguaggi, che nascono dalla mescolanza di tradizione culturale e costante ricerca espressiva.

IKEORAH CHISOM CHI-FADA
Attingendo a riferimenti culturali, personali, politici e storici dell'arte, Ikeorah Chisom Chi-FADA (Lagos, Nigeria, 2000) crea coinvolgenti composizioni narrative figurative a strati realistici che emergono dalla sua storia di giovane nigeriano e dalla sua storia personale che racconta una ambiziosa e incessante ricerca nonostante le difficoltà. Ikeorah esplora ciò che egli descrive come "poesia visiva" nel raccontare storie su tela. La narrazione di questa poesia visiva comporrebbe strati della trama, personaggi, figure retoriche, simbolismo e allegoria mentre utilizza anche un gioco di luci e colori nella costruzione della composizione delle sue opere. Senza essere vincolati dall'intenzionalità del suo lavoro, i puzzle sono aperti alla riflessione e all'interpretazione personale dello spettatore. Parlando del suo lavoro, Ikeorah Chisom Chi-FADA osserva: “Nel dipinto si svolge un dramma di cui voglio che siate testimoni e parte. Credo che una storia di successo sia quella che ti coinvolge e ti induce a credere in qualcosa di profondo e ti lascia in sospeso con domande che portano ad altre domande. Non ho tutte le risposte, come narratore subisco lo stesso destino di voi, gli ascoltatori”.
Il percorso artistico dell’autore è iniziato nella prima infanzia, crescendo tra coetanei creativi - ragazzi di strada che disegnavano e vendevano fumetti di supereroi per ottenere un compenso che sarebbe stato risparmiato per comprare materiale artistico. Tuttavia, a causa delle pressioni dei genitori e degli insegnanti, ha smesso di disegnare e solo dopo un evento traumatico in cui ha rischiato di perdere la sorella a causa di un incendio, si è ritrovato a disegnare di nuovo di nascosto “come mezzo per esprimere il suo trauma e trovare sollievo”, disegnando la sorella come un personaggio di supereroe con le fiamme. Ikeo-rah descrive la sua pratica artistica come una “storia in evoluzione” che conserva ancora pezzi della sua infanzia, poiché il simbolismo delle fiamme, che rappresenta una divinizzazione dei suoi soggetti e delle loro storie, è ancora presente nella sua pratica.
Le sue opere sono state esposte a livello internazionale in presentazioni collettive a New York, Stoccolma, Ontario, Johannesburg, Urusha, Abidjan e Lagos. È stato pubblicato in alcune pubblicazioni e nel novem-bre dello scorso anno ha partecipato alla campagna di Snoop Dog “Invest in Black Artists”. Le sue opere sono state acquisite da collezioni come la Dean Collection, la Ditau Collection, l'Harpers Museum e altre collezioni private.

courtesy of Lis10 Gallery, Arezzo Parigi

LAETITIA KY
Laetitia Ky (Abidjan, Costa d’Avorio, 1996), da molti anni sviluppa un’attività artistica assolutamente originale, che incrocia la dimensione espressiva con quella dell’impegno civile e politico in senso lato e dal punto di vista tecnico, unisce in maniera sinergica diverse discipline artistiche, dalla fotografia alla pittura, dalla scultura alla performance, dal videomaking al cinema. In particolare ha sviluppato una ricerca teorica e tecnica relativa alle cosidette “sculture capillari”, in cui l’acconciatura, segno distintivo e identitario, linguaggio non verbale nel continente africano, diventa strumento di rivendicazione identitaria e di gene-re.
La sua attività l’ha condotta nel giro di pochi anni a una frenetica attività internazionale: Biennale di Venezia del 2022 in cui rappresentava il suo paese, la Côte d’Ivoire, nel padiglione nazionale, Musée des Art Decoratifs di Parigi, Musée des Beaux Art di Caen, Kunstmuseum di Wolfsburg per citarne alcuni, e inoltre impegni seminariali e workshop alla Tate Modern di Londra, la “Ted Conference” ad Atlanta, “Based“ a Istanbul, ed anche l’Orso d’Argento al Festival del Cinema di Berlino, per l’interpretazione come protagonista femminile del film “Disco Boy”.
Laetitia Ky ha sviluppato da tempo un lavoro di analisi e di rielaborazione sul concetto di archivio; un lavoro iniziato con la scoperta di un deposito con fotografie del periodo precoloniale in Côte d’Ivoire e nel resto del continente che ritraevano donne africane con le loro acconciature.
Le acconciature nella maggior parte dei paesi africani rappresentano un vero e proprio linguaggio non verbale, che permettono all’osservatore di comprendere l’etnia di appartenenza della donna, il suo status sociale, lo stato civile, il lavoro svolto.


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